L’analisi

Aiuti alle imprese, un fondo sovrano (made in Ue) per contrastare gli Usa

Aiuti alle imprese, un fondo sovrano (made in Ue) per contrastare gli Usa

C’era una volta l’idea che gli aiuti pubblici all’industria fossero il principale ostacolo alla realizzazione del mercato unico europeo. Uno stupefacente o addirittura un veleno. Oggi questa prospettiva — a causa della pandemia, della guerra in Ucraina e della transizione ecologica e digitale — sembra totalmente ribaltata. Senza aiuti pubblici alle aziende più esposte in settori strategici si rischia la desertificazione industriale. L’Unione europea teme di trasformarsi, in alcune filiere produttive, in un manzoniano vaso di coccio.Non solo per aver sottovalutato, allungando troppo le catene del valore, la minaccia cinese, l’eccessiva dipendenza dal gas russo ma anche, e soprattutto, per la concorrenza sleale degli alleati americani, peraltro autonomi sul piano degli approvvigionamenti energetici. Questo però non significa — specialmente in Italia dove è forte e rinascente un’ideologica e politicamente trasversale avversione alla grande impresa — la sconfitta di una visione aperta e concorrenziale dell’economia, con il definitivo ritorno della mano pubblica.

La mossa Usa

Al contrario. Si tratta di salvaguardare le basi del commercio internazionale, di non togliere spazio all’iniziativa imprenditoriale e alla sua crescita. Ogni frammentazione è foriera di incomprensioni e conflitti, non solo economici. Ogni protezione ne richiama un’altra. L’Inflation reduction act di Joe Biden preoccupa per le ingenti risorse pubbliche (370 miliardi di dollari) che mobilita a favore delle aziende presenti negli Stati Uniti. L’obiettivo (nobile) è quello della decarbonizzazione. La chiave (politica) è sfacciatamente protezionistica. Quante imprese europee saranno indotte a imitare la coreana Hanwha Qcells (pannelli solari), attratta da generosi crediti d’imposta, che ha appena annunciato un investimento di 2,5 miliardi di dollari in un nuovo complesso industriale in Georgia? L’effetto sul futuro del commercio mondiale della mossa statunitense non è dissimile dall’aggressività statale cinese nel porre barriere e creare asimmetrie dopo aver lungamente goduto delle aperture garantite dall’adesione alla World trade organization.

I timori

L’industria europea ha paura, di conseguenza, di soffrire di una siccità economica, che si aggiungerebbe a quella climatica, nell’impossibilità peraltro di avere mezzi adeguati per combattere quest’ultima. L’Europa dovrà necessariamente irrigare con aiuti pubblici le proprie filiere, specialmente quelle legate alla transizione energetica (la dipendenza dalla Cina sul versante dell’eolico e dell’elettricità è inquietante). Ma come farlo? E soprattutto come assicurarsi che la mano statale si limiti a difendere la competitività dei gruppi europei senza alterare le condizioni del mercato unico in un intreccio, che può essere perverso, tra politica e industria?

L’economista Giorgio Barba Navaretti, su La Stampa, ha paventato il rischio di un allentamento progressivo dei limiti all’aiuto pubblico che favorirebbe inevitabilmente i Paesi membri con una maggiore capacità fiscale, dando il là a misure e contromisure che minerebbero i principi dell’organizzazione mondiale del commercio. Entro la fine di questo mese, la Commissione europea dovrebbe definire una proposta per superare il cosiddetto «State aid temporary framework», cioè la sospensione del divieto di aiuto pubblico alle aziende imposta dalla pandemia. Come accadrà per il Patto di stabilità e crescita non si tornerà alla situazione ex ante. Tra le ipotesi di cui si parla, nel semestre della presidenza svedese, vi è quella della creazione di una sorta di fondo sovrano che si aggiungerebbe ad altri strumenti, come per esempio il RePowerEu. Il più deciso è il commissario al mercato interno, Thierry Breton, che propone di replicare il modello solidale della campagna vaccinale europea. Sì, ma se ogni Paese avrà una maggiore libertà di sussidiare le proprie imprese, quelli con un minor debito (come la Germania) saranno largamente avvantaggiati, come peraltro già avvenuto (ne sanno qualcosa, tanto per fare un esempio, Klm-Air France e Lufthansa che si candida a rilevare Ita).

La questione del debito comune

Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha aperto però alla possibilità di emettere debito comune per contrastare il piano di aiuti Usa. La discussione è aperta. Ma sottotono, se non inesistente, in Italia. Ed è già questo un fattore che non ci avvantaggia. «Ci troviamo di fronte — è il commento di Tommaso Valletti, docente all’Imperial College — a un cambiamento profondo, a un salto di paradigma. L’Europa ha scoperto di essersi indebolita in alcune catene del valore — per esempio nei semiconduttori o nella farmaceutica — nelle quali ha inseguito solo parametri di minor costo perdendo del tutto di vista gli aspetti strategici. Una miopia che ci costringe a reinventare una politica industriale nella constatazione che il mercato non può dare tutte le risposte, specie nella lotta al riscaldamento climatico. Si tratta dunque di scegliere le priorità e consentire aiuti, o meglio investimenti, valutandone in maniera imparziale l’efficienza. E poi c’è un tema di antitrust anche se io ritengo che la scala non sia sempre sinonimo di efficienza visto che la grande dimensione ricrea situazioni di dipendenza e di potere di mercato».

Il pendolo

Ma dove si fermerà il pendolo tra Stato e mercato? «Gli aspetti geopolitici — interviene Andrea Coscelli, partner di Keystone Strategy — sono stati ovviamente sottovalutati come dimostra la vicenda del gas russo. Una situazione analoga potrebbe replicarsi su altre, e ugualmente delicate, supply chain. I tempi dell’analisi economica e degli investimenti industriali sono poi diversi e assai più lunghi di quelli della politica. E qui sta il principale dei rischi nascosti. Gli Stati americani sono in lotta tra loro per attrarre investimenti esteri. Si avvantaggiano gli azionisti delle società incentivate a danno dei contribuenti del Texas o dell’Ohio. Stiamo attenti a non imitare, nella risposta europea, questo genere di conseguenze. O almeno sarebbe meglio esplicitarle, in modo che si valutino i costi opportunità».

«Gli Stati Uniti non hanno cambiato solo le regole del gioco — è l’opinione di Andrea Boitani, ordinario di Economia politica all’Università Cattolica — ma hanno cambiato gioco. Siamo su un’altra dimensione. Tutta da esplorare. E non è solo, come si teme, una questione di capacità fiscale che alcuni governi hanno più di altri. Stiamo parlando di un eventuale intervento, anche attraverso la emissione di debito comune, che sarebbe un errore considerare come la semplice ripresa, su scala maggiore, degli aiuti di Stato. Si tratta di capire poi chi merita di essere finanziato e come. E qui ci sarà una valutazione sulla competitività e sul grado di innovazione delle aziende, favorendo aggregazioni che oggi ci appaiono remote se non impossibili. E forse sarebbe opportuno che si ridiscutessero tanti sussidi attuali alle imprese che non hanno più alcun senso e contraddicono gli obiettivi della transizione energetica».

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